Antonio Loschi, segretario pontificio (1409-1441)

Nel 1409 si aprì con il concilio di Pisa. L’elezione al soglio pontificio del Filargo sembrò aprire a Loschi nuove e promettenti possibilità, infatti il 22/23 settembre il vecchio amico, ora Alessandro V, gli conferì l’incarico di scriptor litterarum apostolicarum al posto di Giovanni da Montemonico. Loschi seguì il papa a Pistoia e Bologna, anche se non svolse il suo incarico con continuità. Comunque il 14 dicembre ottenne dal pontefice la garanzia dell’incarico a vita nonostante il matrimonio. La conferma di questo privilegio con una bolla sarà uno dei primi atti del successore di Alessandro V, Giovanni XXIII, compiuto proprio il giorno dell’incoronazione (25 maggio 1410). Tracce dell’attività di Loschi come segretario si trovano solo nei sommari tratti da un registro oggi perduto, dove figura come esaminatore di alcuni candidati all’ufficio di notaio. Il pontificato di Pietro Filargo fu troppo breve perché Loschi potesse trarne beneficio. Ben diversamente andarono le cose con Giovanni XXIII: anche in questo caso, come abbiamo visto, Loschi poteva vantare un rapporto personale già aperto con il nuovo pontefice. E Baldassarre Cossa non tardò a servirsi di lui: da questo momento l’attività di Loschi in Cancelleria e nella Camera cominciò a intensificarsi. Viene impiegato anche in missioni diplomatiche nel 1410 e nel 1413, ma soprattutto come nunzio in Germania nel 1411, probabilmente diretto al re dei romani Sigismondo. Giovanni XXIII seppe ricompensare Loschi dei servigi resi investendolo di numerosi benefici. Accompagnò il papa al concilio di Costanza nel 1414-15, dove partecipò ai lavori come primo notaio pontificio, e con lui ne fuggì, riparando poi a Vicenza. Qui riprese l’attività letteraria, ospitando Francesco Barbaro, il Filelfo e lo storico Antonio Godi.
Il papa eletto dal concilio di Costanza, Martino V, poteva avere conosciuto Loschi ai tempi del concilio di Pisa, o ancora prima sotto Innocenzo VII, all’epoca della missione per conto della repubblica veneziana. Subito comunque lo volle intorno a sé, nella schiera di umanisti e dotti che trasse dalle tre vecchie obbedienze. Loschi raggiunse la Curia a Mantova, mentre il papa era in viaggio verso Roma, e lì il 12 dicembre 1418 prestò giuramento come segretario pontificio. Non proseguì con la corte papale, ma rientrò a Vicenza dove ricevette i saluti di Francesco Barbaro. A Roma comunque fu presente almeno a partire dall’inizio del 1421, quando si trovano nei registri pontifici le sue prime lettere dettate a nome di Martino V. In questo momento Loschi era certamente il più esperto e autorevole membro della segreteria. Pochi mesi dopo, il 26 marzo 1422, Loschi fu onorato da un diploma pontificio che gli concedeva la cittadinanza romana. Dal documento, redatto dall’amico Cencio de’ Rustici, risulta che la nomina era legata alla volontà di ripristinare e accrescere il prestigio della nuova Roma.
Sotto Martino V Loschi visse un decennio di attività frenetica, non solo per le innumerevoli lettere pontificie di ogni tipo composte (se ne trova traccia nei Registri Vaticani e in quelli Lateranensi, oltre che negli originali dispersi negli archivi europei e, come vedremo nel cap. 4, nei codici della “corrispondenza politica di Martino”), ma anche compiendo per il papa missioni diplomatiche, perché l’impiego di segretario: "comportava, com’è ovvio, una perspicua valutazione dei problemi, degli atteggiamenti, in una parola della linea politica della Sede apostolica. I segretari erano infatti i collaboratori più stretti dei papi, non soltanto per la stesura dei testi, ma altresì per la trattazione degli stessi affari di stato"; inoltre Loschi vantava una rete di relazioni già ampia e consolidata. Fu così impiegato tra il 1423 e il 1426 per trattare con Filippo Maria Visconti la cessazione delle ostilità nell’Italia centrosettentrionale e nell’ambito dell’offensiva diplomatica volta a isolare Braccio da Montone. Nella seconda metà del 1426 giunse a Buda presso l’imperatore Sigismondo (già conosciuto ai tempi di Giovanni XXIII e del concilio di Costanza), che il 22 agosto 1426 lo creò conte palatino e, pare, gli concesse l’alloro poetico (come risulta dal codice VICENZA, Bibl. Comunale Bertoliana 336 [M41], f. 3r). Di questa missione non rimane traccia nella documentazione ufficiale di parte pontificia o imperiale;73 se si osserva la cronologia delle lettere di Antonio Loschi, però, risulta evidente la sua assenza tra il luglio e il novembre 1426, che dovrebbero quindi essere gli estremi del viaggio in Ungheria. Ancora una volta la scelta di Loschi non fu casuale: a partire dal 1421 aveva seguito con assiduità lo svolgimento della guerra agli eretici ussiti in Germania e Boemia, con il coinvolgimento del re di Polonia e del duca di Lituania (sono numerosissime a questo proposito le lettere nei registri pontifici e soprattutto nella corrispondenza politica).
Di questa intensissima attività risentirono gli studia humanitatis; certo Loschi manteneva i contatti con l’ambiente milanese, tenendosi aggiornato sui progressi del giovane Decembrio e cantando la sottomissione di Genova al nuovo duca Filippo Maria con un carme che è stato considerato il suo addio all’attività poetica, ma, in effetti, la principale riuscita letteraria del periodo sembrano essere stati i versi premessi alle commedie del Plauto del Cardinale Orsini.
Loschi, però, era stato chiamato a Roma anche per partecipare alla ricostruzione del tessuto culturale e intellettuale dello stato pontificio, e ripristinare gli usi degli antichi romani, come si dice esplicitamente nella concessione della cittadinanza. Effettivamente all’interno della segreteria si formò un affiatato cenacolo di umanisti, quello descritto nelle Facezie di Poggio, che si riuniva nel “bugigale” e portavano avanti una conversazione che oscillava tra la satira tagliente e la risata grassa. Loschi, "vir admodum facetum" era uno degli animatori del bugigale, in cui forse riviveva i convegni pavesi nel castello di Gian Galeazzo. Come si desume soprattutto dall’epistolario di Poggio, era un circolo che si occupava appassionatamente di libri e autori antichi, e in generale dell’antichità ricostruendo cene “alla romana” o raccogliendo le iscrizioni dei monumenti. Ma poteva diventare anche una lobby attiva nella politica curiale, come dimostrano le pressioni in opposizione a Valla e in favore di Giuseppe Brivio e del Filelfo.
Negli stessi anni, Poggio concepiva il De varietate fortunae (che vedrà la luce tra il 1448 e il 1455, anche se la finzione letteraria colloca il dialogo tra “Antonius Luscus” e “Poggius” nel 1430), come risulta dalla lettera a Loschi del 20 giugno 1424 in cui compaiono già exempla che troveranno poi posto nella redazione definitiva. La scelta di Loschi come protagonista potrebbe non essere stata casuale: alcune vicende scelte da Poggio come emblematiche riguardano personaggi con cui Loschi aveva avuto a che fare, su tutti Giangaleazzo Visconti e Braccio da Montone (quest’ultimo aveva compiuto la sua parabola da pochissimo tempo; Loschi forse conobbe Braccio al tempo della reggenza di Bologna e, dopo aver lavorato intensamente per tessere la rete di alleanze che doveva portare alla sua sconfitta, dettò anche il breve con cui Martino V comunicò la vittoria ai principi della cristianità, cf. la lettera 12 nell’Appendice II). Inoltre se il tema della volubilità della fortuna aveva illustri precedenti nell’Umanesimo (Petrarca,Boccaccio e il più immediato De fato et fortuna di Coluccio Salutati), anche il giovane Loschi aveva mostrato un forte interesse per l’argomento; pertinenti considerazioni sulla cupa insistenza sul fato e sulla "sempre mobile ruota della fortuna" che "trascina nel rapido giro le sorti degli uomini" (parole di Loschi nell’Achilles) sono sviluppate a più riprese da Garin, che sottolinea anche il legame con gli astrologi padovani provato dai carmi indirizzati al medico Jacopo Dalla Torre da Forlì.
Loschi è protagonista (insieme a all’amico Cencio de’ Rustici) di un altro dialogo poggiano, il De avaritia, dove il suo discorso costituisce "il punto focale dell’operetta": tessendo le lodi dell’avarizia, sottolinea l’effettiva utilità sociale di quegli uomini desiderosi di arricchirsi che sono la vera base della città. Del resto per Poggio la scelta stessa di Loschi come difensore dell’avarizia costituiva un paradosso ironico: "tribueram primas partes culpandi avaritiam Cincio, qui habetur avarus; defendendi vero Antonio, qui est fere prodigus: id consulto feceram, ut et avarus impugnaret avaritiam, et prodigus tuererur".
Alla morte di Martino V Loschi ne compose l’epigrafe per la tomba in S. Giovanni in Laterano, diversa dell’epitaffio che si trova in BAV, Vat. Lat. 5994, f. 74v. Tra il 1432 e il 1435 Loschi fu al servizio di Eugenio IV. La facoltà di erigere nella cattedrale di Vicenza una cappella per la propria famiglia, ottenuta dal pontefice il 28 marzo 1432, indica che le radici venete non si erano inaridite (come del resto attesta il suo continuo andare e venire da Vicenza) e che si avvicinava il momento di prepararsi al trapasso. Quando, nel giugno 1434, Eugenio IV fu costretto a lasciare Roma, Loschi lo seguì a Firenze, dove si riunì a Leonardo Bruni (cancelliere della repubblica fiorentina), Biondo Flavio, Andrea Fiocchi e tutta la schiera di intellettuali richiamati dal concilio d’unione con la chiesa greca. Lì, la primavera del 1435, nell’anticamera papale a S. Maria Novella, ebbe luogo la famosa “questione della lingua”, a cui presero parte Bruni, Poggio, Fiocchi e Rustici. Nello stesso anno Loschi lasciò la curia per ritirarsi a Vicenza dove poteva riconciliarsi, secondo le esortazioni di Francesco Barbaro, con i suoi vecchi amici, i libri, (anche se esistono documenti pontifici posteriori recanti la sua firma o di altri per lui). Nel 1440 pare fosse di nuovo a Roma per incarico di Filippo Maria Visconti, da dove scrisse a Pier Candido Decembrio lamentandosi di non aver ricevuto compenso dal duca.
Si ritirò infine a Vicenza, dove morì tra il 25 maggio e il primo ottobre 1441.