Antonio Loschi, cancelliere visconteo (1368-1408)

Antonio Loschi nacque a Vicenza intorno al 1368 da Elena Regle del Gallo e Ludovico Loschi, dottore in diritto civile e personalità rilevante nella vita cittadina, che era entrato al servizio degli Scaligeri di Verona svolgendo anche missioni presso Gian Galeazzo Visconti a Milano. Compiuti i primi studi nella città natale e in seguito in altri centri veneti, pare Padova, Antonio, forse sulle orme del padre, si impiegò presso la corte scaligera di Verona, che in quel momento governava Vicenza.
Non sono molti gli elementi che consento di ricostruire la carriera scolastica di Antonio Loschi. La sua frequenza alla scuola di Giovanni Conversini a Padova è una pura ipotesi avanzata dal Da Schio e ripresa dai biografi successivi, mentre più accertati sono gli studi di grammatica sotto Paolo Piloni (che dedica al suo pupillo un poemetto encomiastico e un’orazione). Aveva comunque già preso gli ordini minori, se poté godere di un beneficio a Treviso intorno al 1385.
In questi anni Loschi era alla ricerca di un impiego più sostanzioso; la presenza del concittadino e amico Giovanni da Thiene a Napoli fu forse l’occasione per sondare la disponibilità di quella corte: a questo scopo dovrebbe essere stato rivolto il poema per Carlo III di passaggio a Vicenza nominato nella lettera a Ladislao Durazzo, a cui forse fece seguito un soggiorno nella capitale angioina dove avrebbe praticato per qualche tempo gli studi legali. L’occasione d’oro si presentò nell’ottobre 1387, quando Verona cadde sotto il dominio di Gian Galeazzo Visconti. Loschi si trovava a Firenze, dove aveva intenzione di farsi discepolo di Coluccio Salutati, ma quella "rerum illius patriae repentina mutatio" lo spinse a rientrare precipitosamente, prima ancora dell’inizio dell’insegnamento. Non cambia molto la sostanza degli eventi se si interpreta patria come la nativa Vicenza piuttosto che come Verona, perché pochi giorni dopo la caduta della capitale scaligera il Visconti occupò anche quella città, sorprendendo i contemporanei che la ritenevano destinata a Francesco I da Carrara, signore di Padova e alleato del conte di Virtù. Loschi era comunque diventato un cittadino dello stato milanese e l’inserimento in un contesto più ampio offriva nuove prospettive alla sua carriera. Se dopo la conquista aveva potuto stringere rapporti con il nuovo vescovo di Vicenza Filargo e con il governatore visconteo Ugolotto Biancardo, già l’anno seguente, prima di giugno, Loschi fece la sua comparsa a Pavia, sede dell’unica università dello stato visconteo, dove si iscrisse alla facoltà di arti ("Papiae scholaris in artibus existit" si afferma nell’indulto di Bonifacio IX del 1389, ma il nome di Loschi non compare mai nelle fonti relative all’Università di Pavia), e dove allacciò rapporti con l’ambiente culturale milanese, in particolare con Giovanni Manzini, e con la corte di Gian Galeazzo, in questo favorito forse anche dalle precedenti conoscenze del padre. Verosimilmente a Pavia Loschi fu allievo del Travesio, insieme con Barzizza.
In procinto di lasciare Vicenza per Pavia, Loschi si era rivolto a Coluccio annunciandogli l’intenzione di iscriversi all’università pavese e chiedendogli raccomandazioni per entrare nella cancelleria di Milano. Raccomandazioni che devono essere andate a buon fine, visto che a partire dal 1390 si sviluppò una corrispondenza a tre (Loschi stesso, Coluccio, Pasquino Capelli) che ce lo mostra particolarmente vicino al capo della cancelleria milanese, come confermato anche da una lettera del 1390 di Giacomo Allegretti a Pasquino. Nell’anno precedente (il 1389) si situa l’ingresso di Loschi nel capitolo della cattedrale di Padova, episodio notevole per la menzione nel diploma d’investitura del predecessore non immediato: Francesco Petrarca. L’episodio si ricollega senza dubbio al culto petrarchesco che informa ogni manifestazione del giovane Loschi ("che non si stancava di ricalcarne, quasi un Petrarca redivivo, le più piccole orme, la stessa città, la stessa casa"), ma è stato ricondotto da Giuseppe Billanovich a un contesto più ampio, cioè alla necessità per Giangaleazzo di assegnare a una persona competente e fidata la preparazione del trasferimento a Pavia della biblioteca dei Carraresi (cioè di quella petrarchesca). Sempre nel 1389 Loschi aveva soggiornato brevemente a Roma, probabilmente proprio per accertarsi che il diploma venisse rilasciato nella forma desiderata.

Nella cancelleria viscontea Loschi si trovava coinvolto nel carteggio a proposito del De lingua latina di Varrone proveniente dalla biblioteca di Petrarca e richiesto da Coluccio e delle lettere ciceroniane Ad Atticum della biblioteca capitolare di Verona (che portò alla scoperta delle Ad familiares nella biblioteca capitolare di Vercelli). In una di queste lettere Loschi informava il maestro fiorentino della sua intenzione di comporre una versione poetica dell’Iliade, probabilmente rielaborando il testo di Leonzio Pilato; sappiamo anche della sua intenzione di lavorare sulla figura di Ulisse nell’Odissea. Codici delle traduzioni di Iliade e Odissea di Leonzio Pilato, copiati tra XIV e XV secolo dal Parigino 7880 già del Petrarca (quindi dalla biblioteca dei Carraresi passata ai Visconti), e appartenuti al figlio di Antonio, Niccolò, si trovano nella Biblioteca Nazionale di Napoli con la segnatura V E 29 e V E 30. Da notare che tale impegno non richiedeva a Loschi alcuna conoscenza di greco, e a questo proposito andrebbe accertato il valore delle notizie fornite da Leonardo Bruni nel proemio del Fedro e da Enea in una lettera al duca d’Austria da cui sembra doversi dedurre la sua presenza in quel gruppetto di umanisti che partecipava alle informali lezioni tenute da Manuele Crisolora nel corso del suo soggiorno a Milano (se non più semplicemente il riconoscimento della presenza del grande greco alla radice dell’umanesimo quattrocentesco). Dalle opere di Loschi non si desumono altri elementi a favore della sua conoscenza del greco, anzi: dell’Inquisitio artis (che comunque sarebbe anteriore alle lezioni del Crisolora) risulta che l’unica fonte greca, la Retorica di Aristotele, è letta nella traduzione medievale di Guglielmo di Moerbeke, il nome greco attribuito a ciascuna figura retorica sembra tratto dalla tradizione lessicografica medievale. Come l’ispirazione per il lavoro su Omero, anche il resto dell’opera loschiana di questi anni porta chiari i segni dell’influenza petrarchesca: l’Inquisitio artis in orationibus Ciceronis prende spunto dalla raccolta di orazioni ciceroniane assemblate da Petrarca, e la fabula Zapelleti è chiaramente sulla scia della versione latina della Griselda.
Altri esponenti del circolo letterario che si riuniva intorno alla biblioteca del castello di Pavia e sotto la protezione di Pasquino Capelli sono Umberto Decembrio, Giovanni Manzini della Motta da Fivizzano, Matteo d’Orgiano e Moggio Moggi, ma anche Pietro Filargo. Intorno e dentro la biblioteca viscontea, perché per questi umanisti i libri che furono di Petrarca sono il principale stimolo culturale. Quando ormai aveva lasciato la capitale viscontea, mantenne intensi legami non solo con i vecchi compagni ma anche con le nuove generazioni dell’ambiente milanese, ci appare per esempio in contatto con Antonio da Rho.
Da queste lettere emerge la figura di un ragazzo che sta ancora completando la sua formazione piuttosto che quella di un funzionario a pieno titolo. Testimonianze certe della permanenza di Loschi a Pavia in questi anni sono la poesia per due inviati straordinari milanesi in Francia (23 ottobre 1394) e il discorso tenuto per la laurea in medicina di Matteo da Vittuone (inizio del 1396 circa). Nel frattempo, nel 1393, Loschi aveva sposato Elisabetta Brivio sorella del letterato milanese Giuseppe. Assunse quindi, come anche altri suoi colleghi umanisti, la condizione di clericus coniugatus, conforme alle norme di diritto canonico, ma che la Chiesa stava cercando di limitare.
All’ultimo decennio del Trecento risalgono anche alcuni approcci con i circoli letterari nati intorno alla cancelleria del re di Francia. Le tracce sono tenui, ma si può osservare che tali contatti avvengono in nome di quelli che anche oltralpe sono considerati i “classici” italiani, non direttamente Petrarca, ma i suoi emuli Boccaccio e Salutati. Loschi infatti rivolge il suo unico carme epistolare indirizzato fuori dall’Italia a Laurent de Premierfait, noto soprattutto come volgarizzatore di Boccaccio, ma considerato dai suoi contemporanei valido oratore e poeta (come tale lo esalta Loschi), oltre che dotto impegnato nello studio dei classici. Nella direzione opposta, conosciamo una lettera di Jean de Montreuil con cui il cancelliere del re di Francia prende contatto con il segretario visconteo: vanta il rapporto con Coluccio, di cui possiede diverse opere e prega Loschi di inviargli suoi scritti invitandolo nel contempo a Parigi. Non pare che questi approcci abbiano avuto un seguito, comunque possiamo osservare che uno dei primi compiti che Loschi ebbe da Martino V fu di occuparsi della corrispondenza relativa alla guerra dei cent’anni e dei tentativi dei legati papali di porvi fine.
Al 1397 va attribuita con ogni probabilità l’invectiva in Florentinos (preceduta da uno scambio di sonetti in volgare), puntello ideologico della politica espansionistica del Visconti, che era stata preceduta dall’exhortatio ut pacem cogitet per viam belli, affine per contenuto, rivolta sempre da Loschi al duca Gian Galeazzo. Sebbene l’invectiva sia stata spesso vituperata in quanto antagonista della Florentina libertas, in difesa della quale si levarono le voci di Cino Rinuccini e, più tardi, di Coluccio Salutati, lungi dall’essere "priva di ordine e logica" essa risulta "agile, vibrante, nervosa, degna del ciceroniano insigne".
Entro la fine del Trecento dovrebbero aver visto la luce anche tutte le altre principali opere letterarie di Loschi (oltre a gran parte della produzione poetica): il volgarizzamento delle Declamationes maiores dello pseudo Quintiliano, la tragedia Achilles, la versione latina dell’ultima novella del Decameron (Fabula Zapelleti) e soprattutto l’Inquisitio artis in orationibus Ciceronis, primo commento umanistico alle orazioni ciceroniane.
Un ombra su questi ultimi anni viene da una poesia rivolta a Francesco Barbavara, primo consigliere di Gian Galeazzo, in cui il poeta lamenta di essere stato allontanato ingiustamente dalla corte chiedendo al destinatario, una volta suo promotor, di rendere possibile un ritorno a Pavia. Le preghiere devono essere andate a buon fine se dal 1398, e solo da questo momento, l’attività di Loschi nella cancelleria milanese è attestata con certezza. A partire dal 26 giugno 1398 fino al 16 novembre 1403 si trovano documenti di Gian Galeazzo firmati A. Luscus o Antonius Luscus. La sua ascesa non sembra comunque da mettere in relazione con la caduta di Pasquino Capelli (imprigionato proprio nel 1398), come normalmente viene fatto sulla scorta di una frase di Coluccio. Nella cancelleria di Gian Galeazzo Loschi sembra essere stato una figura di secondo piano, non sicuramente uno di quelli che si occupavano della politica dello stato, e nemmeno una delle figure più in vista delle cancelleria. Girgensohn identifica in Giovanni da Carnago il vero successore di Pasquino Capelli.
Dopo la morte di Gian Galeazzo (3 settembre 1402), le attestazioni dell’attività di Loschi si infittiscono, a conferma del forte legame con Francesco Barbavara, che in quel momento travagliato assumeva responsabilità di governo a fianco della vedova e dei giovanissimi eredi del duca. Larghissima diffusione ebbe l’epitaffio composto da Loschi per il Giangaleazzo.
La rovina dello stato visconteo, con le inevitabili incertezze sul ruolo di chi è impiegato nell’amministrazione consigliarono però il vicentino a lasciare Milano per rientrare a Vicenza entro il 1404, tanto più che Barbavara era stato costretto a lasciare in fuga la città. Loschi si decise a malincuore, come dimostrano l’epistola metrica con cui esorta i vicentini a conservare la fedeltà ai Visconti (datata 12 marzo 1403) e la partecipazione con cui rievoca quegli eventi scrivendo a Filippo Maria Visconti nel 1412. A dispetto delle esortazioni di Loschi, il 25 aprile 1404 l’esercito di Venezia occupò Vicenza in seguito alla richiesta di protezione avanzata da una qualificata delegazione cittadina, di cui facevano parte Ludovico Loschi e altri due illustri vicentini e parenti di Antonio, Pietro Proto e Giacomo Thiene. Forse ancora una volta grazie al padre, quindi, Antonio ritornò alla vita pubblica nel giugno 1406 come ambasciatore della repubblica veneziana presso Innocenzo VII, con il delicato incarico di ottenere il trasferimento ad altra sede del vescovo di Verona (città sotto il dominio veneziano dal giugno 1405) Giacomo Rossi, di parte viscontea. Loschi tenne almeno due orazioni davanti al pontefice, e nel settembre poteva ringraziarlo per aver affidato la diocesi veronese a Angelo Barbarigo, veneziano.
Sulla strada per Roma Loschi aveva sostato a Perugia, dove era stato raggiunto da una lettera di Giovanni Tinto Vicini da Fabriano che lo proclamava erede di Coluccio, adulazione da cui si schernisce nella lettera di risposta (spedita da Roma il 25 ottobre 1406). Come benvenuto il segretario pontificio Francesco da Fiano gli rivolse un carme elogiativo, e anche in questo caso Loschi rispose entro pochi giorni dando vita alla gara poetica riferita da Pier Paolo Vergerio. Se nella lettera di Giovanni Tinto Loschi era proclamato successore del Salutati, ora Fiano punta più in alto: Nuper ad hanc urbem Latialis gloria linguae / unica, divini venit post fata Petrarcae, / Luschorum de stirpe natus. E davvero, come si è visto, fino a quel momento Loschi aveva calcato le orme dell’iniziatore dell’umanesimo. Si può a questo proposito ricordare che Loschi aveva anni prima domandato a Umberto Decembrio la sua opinione sull’opera petrarchesca (sottointeso latina), ottenendone una lettera di risposta che costituisce la probabile fonte di un passo dei Dialogi ad Petrum Paulum Histrum di Leonardo Bruni.
Da subito dunque, durante il soggiorno alla corte pontificia, Loschi aveva preso contatto con il circolo letterario che gravitava intorno alla Curia (Bartolomeo Capra, Leonardo Bruni, Cencio de’ Rustici, Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano, Francesco Piendibeni da Montepulciano). In una lettera dell’agosto, Bruni chiese al Niccoli di inviargli a Roma copia di alcune sue traduzioni dal greco per offrirle a Loschi; si tratta della Vita di Marco Antonio di Plutarco insieme ad alcuni opuscoli di Senofonte (De tyranno) e di s. Basilio (De studiis). Anche dopo la riuscita della sua missione Loschi si attarda ancora a Roma, che lascia dopo il 25 ottobre, comunque prima della morte di Innocenzo VII e prima di essere raggiunto dalle nuove istruzioni del doge Michele Steno, che lo incaricano di portare gli omaggi della repubblica al nuovo pontefice.
Gregorio XII (il veneziano Angelo Correr) chiamò presto a sé Loschi, di cui forse aveva potuto apprezzare le capacità durante la missione appena conclusa, rilasciandogli un passaporto in cui lo dice magister, secretarius et fidelis (1 gennaio 1407). Non c’è prova diretta che al titolo sia corrisposto un effettivo impiego al servizio del pontefice, e nemmeno di un soggiorno a Roma, che in ogni caso dovrebbe essere stato molto breve se due poesie datate a Vicenza rispettivamente il 28 agosto e l’8 settembre 1407 stabiliscono il termine ante quem di quello che sarebbe il primo incarico di Loschi presso la Curia.
Ai mesi seguenti appartiene una serie di lettere, che dovevano avere anche il fine non secondario di conseguire un impiego, rivolte a condottieri (Giacomo dal Verme e Carlo Malatesta, signore di Rimini) e cardinali (Pietro Filargo, conosciuto come vescovo di Vicenza e consigliere di Gian Galeazzo, e Baldassarre Cossa); inoltre a Niccolò III d’Este, signore di Ferrara e al doge Michele Steno. Il 1408 è anche l’anno della morte del padre di Antonio.